Catalogo della personale alla Galleria “Viotti” di Torino

Franco Grasso

pubblicato su: Catalogo della personale alla Galleria "Viotti" di Torino, marzo 1983 autore: Franco Grasso

Un positivo apporto alle sorti della scultura italiana contemporanea, anche nei momenti gravati da pessimistiche previsioni, non è mai mancato da parte degli artisti siciliani: dalla generazione di Franchina e di Cappello, di Mazzullo e di Greco, a quella di Consagra e di Attardi, sino a quella maturatasi negli anni ’50 e ’60. la certezza che tale continuità non sia interrotta ci viene adesso dalla presenza di Salvatore Rizzuti, attivo a Palermo e già affermatosi su piano nazionale con una personale alla “Ca’ d’Oro” di Roma.
La sua opera odierna non discende dalle facili sperimentazioni, dalle avventure neo-avanguardistiche di rapida usura, ma da un forte istinto plastico che non rifiuta i valori della figurazione in quanto espressivi di contenuti universali, di passioni e tensione umane. E intanto prevale in lui, insofferente per ogni atteggiamento di posa o stasi, la smaniosa necessità di accentuare la dinamica dei corpi per renderli significanti di un doloroso interno.
Egli procede nella sua creazione da un travagliato stadio conflittuale in cui entrano in gioco visioni affiorate dai recessi della memoria, risentimenti di ferite antiche e recenti, individuali e sociali, indistinti aneliti di ribellione, e ad un tempo lo sforzo di includere questa materia in fermento entro rigorosi equilibri formali rispondenti in definitiva alle leggi organiche della natura. Sinché non perviene alla chiarezza ideale della forma e quindi alla realizzazione di getto, senza l’ausilio di schizzi e disegni, nello scavo sicuro del legno della pietra del marmo, nella modellazione rapida della creta.
In un primo tempo Rizzuti sembrava incline a cogliere dalla stessa materia, da una frastagliata radice, da un tronco contorto, dagli aspetti di un masso, dalle venature di un marmo, i suggerimenti e gli spunti per le sue immagini: nasceva così dalle sinuosità di una radica d’ulivo il prezioso intrico arboreo di una Dafne dischiuso su un dolce volto di fanciulla; o una maschera urlante o la grinta mostruosa di una bestia agonizzante; o da un fusto di cipresso usciva la severa figura di “Donna gravida” compresa della pulsione di vita fremente nel suo grembo, o da un tronco di noce emergeva un volto d’uomo incupito incombente su una testa femminile scarmigliata, in crudele atto di prevaricazione.
Possono riscontrarsi in tali opere i caratteri volumetrici tipici degli xoana arcaici intagliati nei tronchi cilindrici; ma i limiti del primitivo schematismo vengono superati dalla profondità e libertà dello scavo, dai contrasti accattivanti tra l’ombrosa ruvidezza del legno grezzo e la luminosità delle parti levigate con sensibili modulazioni. Permangono talora questi caratteri strutturali in certe figure in alabastro o in marmo di Carrara, come nell’armonioso verticalismo di “Dopo la doccia” dove il nervoso rilievo del torso scende a piombo sulla pura linea dei fianchi e delle gambe per sciogliersi in basso tra le avvolgenti pieghe del panneggio.
Ma l’ansioso travaglio dell’artista non poteva rimanere frenato in tali schemi, né sempre il torcersi di un tronco poteva esprimere il violento erompere di moti interni. Ricorre allora all’impiego della terracotta e del bronzo liberando le forme in più complesse strutture, in una più violenta dinamica, mentre intervengono motivi emblematici allusivi a situazioni di estrema tensione e si moltiplicano i personaggi significativi del concitato dramma che investe l’umanità e la sua storia: un indomito Ulisse, simbolo della sete inestinguibile di scoperta, sfida la tempesta erto sul relitto di una prua; si dibatte nella lotta contro l’aquila celeste un terrestre Prometeo ribelle ad ogni tirannide; Baccanti invasate in conturbanti deliri torcono a terra le membra in convulsi sussulti.
Sperimentate così le proprietà plastiche della creta e del metallo, ma fedele al primo amore per il materiale ligneo, vivo come la pianta che esce dalla terra, Rizzuti comincia a utilizzarlo col metodo della sovrapposizione di strati compatti, di inserti a tassello, che gli offrono la possibilità, anziché del togliere, dell’aggiungere al nucleo di base, in una continua dilatazione dei volumi che segue la crescita dell’idea dominante. Con questa tecnica, magistralmente padroneggiata, egli può meglio realizzare adesso la sua aspirazione al far grande, alla monumentalità della composizione.
Sorgono in tal modo imponenti figure di eroi e di guerrieri senza spada né scudo, senza volto né nome, ma animati da una forza interna che dopo la lunga compressione si espande per virtù dell’artista che li chiama a combattere le sue battaglie ideali. E’ un mondo che ci ricorda stranamente quello di Ivan Mestrovich, lo scultore jugoslavo che Rizzuti certamente ignora per il silenzio in cui la critica contemporanea lo ha lasciato da mezzo secolo, ma che ha in comune con lui la sincerità e la forza dell’origine contadina.
O forse è un ritorno a una sorta di romanticismo dell’età eroica, nel quale però s’innestano, superati residui veristici o naturalistici, inesistenti suggestioni della rivolta espressionista e della liberazione surrealista nella dimensione del fantastico. In tale dimensione si muovono soprattutto le figure femminili frementi nell’attesa o coinvolte, come in un sogno angoscioso, nel conflitto dell’eros tra piacere  e dolore.
L’ultima composizione è un coraggioso tentativo di evocazione delle vicende del Vespro, in occasione del settimo centenario. Resiste invano alla violenza il giovane corpo di una donna stretto nella presa di due possenti padroni: è la Sicilia oppressa tra Chiesa e Conquistatori nel suo disperato sforzo di riscatto. Una visione che si attualizza nella meditazione sul corso di antichi e di recenti eventi di usurpazione e violenza.

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