SALVATORE RIZZUTI
Biografia

Salvatore Rizzuti nasce a Caltabellotta (Ag) il 4 luglio 1949 in una famiglia di pastori.
Fin da piccolissimo manifesta spiccata creatività e inclinazione soprattutto per la scultura.

All’età di 9 anni è costretto a interrompere gli studi per aiutare il padre e i due fratelli nella cura dell’azienda pastorizia. Vi rimane fino all’età di diciotto anni, quando riprende gli studi, diplomandosi al Liceo Artistico nel 1972. Nello stesso anno si iscrive al Corso di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, sotto la guida dei maestri Silvestre Cuffaro e Carmelo Cappello, diplomandosi nel 1976.

Durante e dopo gli studi si dedica alla realizzazione di numerose sculture, che gli permettono, nel 1980, di fare la prima importante mostra alla Galleria “la Tavolozza” di Palermo, presentato da Leonardo Sciascia e da Bruno Caruso. Da qui una serie di importanti mostre in Italia, tra cui alla Galleria “Ca’ D’oro” di Roma e alla “Viotti” di Torino.

Nel 1980 diventa titolare della Cattedra di Scultura nella stessa Accademia di Palermo dove era già stato allievo, e la mantiene fino al pensionamento, avvenuto il 31 ottobre 2015.

Ha realizzato diversi monumenti pubblici, fra cui il monumento alle vittime della mafia a Campobello di Mazara, il monumento a Francesco Crispi a Ribera e il monumento agli emigranti ad Alessandria della Rocca.
Ha realizzato opere di scultura per diverse chiese della Sicilia, fra cui la chiesa della Magione e quella di San Tommaso D’Aquino a Palermo e la Madrice a Caltabellotta.
È stato direttore dei restauri plastici del Teatro Massimo di Palermo, dal 1986 al 1997, realizzando anche il rifacimento in vetroresina del “Fiorone” sormontante la cupola dello stesso teatro.

  • Nel 2000 ha realizzato, con gli allievi di Scultura dell’Accademia, il plastico in scala 1:10, in legno e gesso, della grande Tribuna marmorea di Antonello Gagini, che, dal 1510 ornava l’abside centrale della Cattedrale di Palermo e che era stata smontata alla fine del ‘700. Detto plastico si trova esposto nelle sale gaginiane del Museo Diocesano di Palermo.
  • Nel 2012 ha realizzato la statua di Santa Rosalia per il Carro del “Festino” a Palermo.
  • Nel 2014 ha donato trentatrè sue opere di scultura, di grandi e piccole dimensioni, al Museo Civico di Caltabellotta.
  • Dal 1972 al 2015, prima come allievo e poi come docente, ha curato e restaurato i Gessi storici della Gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Palermo.
  • E’ autore del “Manuale di Tecniche della Scultura”, edito dall’Istituto Poligrafico Europeo di Palermo.

MONUMENTI E
RESTAURI

COSA DICE
LA CRITICA

La “Grande Madre” di Salvatore Rizzuti

GiuseppeAlletto

pubblicato su: , autore: GiuseppeAlletto

Una figura possente e misteriosa accoglie lo spettatore presso il suggestivo spazio del Teatro Andromeda a Santo Stefano Quisquina (Agrigento).
Si tratta della “Grande Madre” dell’artista Salvatore Rizzuti, uno dei maggiori scultori siciliani viventi.
L’opera trova nel bellissimo teatro, creato da Lorenzo Reina, la sua collocazione ottimale. L’architettura si ispira infatti a una presunta estetica pre-greca o, finanche, pre-omerica, i cui riferimenti si perdono nella notte dei tempi rimandando così a quello stadio primigenio della civiltà indoeuropea che si pensa si sia retto sul matriarcato.
Il volto coperto da un drappo annulla l’identità della figura non tanto per facilitare un’illimitata identificazione in essa ma soprattutto al fine di citare direttamente la funzione archetipica del simbolo femminile inteso come voragine da colmare di senso, campo da arare e lavorare per un rinnovarsi inesausto del ciclo cosmico.
Le asprezze gotiche che caratterizzano molte delle creazioni di Rizzuti lasciano qui spazio alla forma morbida e tondeggiante che evoca una femminilità materna e impenetrabile.
Il seno che crolla pesante, il ventre ampio e prominente, le braccia a chiudersi in un anello ideale eppure naturalissimo nel groviglio delle mani: la figura scolpita da Rizzuti appare di continuo impegnata a espandersi verso l’esterno e a ripiegare verso il suo interno, esprimendo così, già a livello formale, la dinamica ciclica che appartiene allo scorrere del tempo e al continuo trascolorare della vita in morte e della morte in rigenerazione. La Grande Madre di Rizzuti va intesa come ultimo exemplum scultoreo di una femminilità mitica che si fa emblema della Natura e del Cosmo stesso.
Salvatore Rizzuti non fa il pagano, è “pagano”.
Il suo rapporto con la realtà e con i suoi simboli non è mediato alla maniera dei moderni o dei contemporanei. Le particolari condizioni in cui ha vissuto lo hanno condotto a instaurare un rapporto “immediato” con la realtà che lo circonda, divenendo un tutt’uno col silenzio e con il pulsare delle profondità della Natura.
In lui il confine tra Soggetto e Oggetto diviene sottile fin quasi a scomparire.
In lui la nozione cede il posto all’esperienza, l’analisi al sentimento, la conoscenza alla Sapienza.

 

Salvatore Rizzuti o, se preferite, Totò Rizzuti

Salvatore Alessandro Turturici

pubblicato su: Catalogo della mostra permanente delle trentatré opere donate al Museo Civico di Caltabellotta, autore: Salvatore Alessandro Turturici

Salvatore Rizzuti è Totò Rizzuti. A Caltabellotta tutti lo chiamiamo così, con un certo compiacimento che sottolinea l’affetto per l’uomo e la stima per l’artista. È gratificante poter chiamare il prof. Rizzuti, docente accademico, illustre scultore, con l’intimità che solitamente si riserva agli amici. È una confidenza, tra l’altro corrisposta, che tradisce un certo orgoglio e perfino un po’ di sano campanilismo, come quando ci vantiamo con i forestieri per la millenaria storia di Caltabellotta.
Ecco, parliamo di Totò come parliamo del famoso pizzo roccioso, dell’aria fine e di altre indubbie bellezze della nostra terra, le stesse cantate da poeti, scrittori, storici, studiosi e viaggiatori di ogni tempo. Nel vezzeggiativo Totò, dunque, possiamo ritrovare la radice più profonda di un sentire l’uomo e l’artista quasi fosse il nostro Totò, cioè uno di noi, uno tra i più intimi. Non solo, nell’uomo e nel suo operato riusciamo ad intuire un valore speciale, quasi una ricchezza territoriale, similmente a quanto avviene per altre risorse naturali. Totò, vanto di Caltabellotta, è da noi sentito come una potenza della natura.
Tutto ciò, per quanto bello, vero ed evidente, non è però scontato.
Infatti l’arte di Totò non è facile, né ruffiana, né di tendenza o alla moda.
Anzi, è tutt’altro. È arte senza compromessi; dura, asciutta, sobria, ascetica, tagliente, introversa, intimistica, tenebrosa, enigmatica, austera ma è anche espressione malinconica, struggente, sublime e romantica. In tutto questo, infine, è arte sempre fieramente elegante.
In tal senso l’opera del maestro Salvatore Rizzuti non è commerciale e non è popolare e non sarebbe popolare nemmeno l’uomo, giacché egli stesso è autenticamente come la sua opera. Egli è come appare! È così durante il suo fare artistico, cioè quando lavora, ed è così nell’esito finale delle sue opere, le quali tradiscono sempre la loro discendenza paterna. Dunque si può affermare che c’è identità tra l’uomo e l’artista; anche questo, in altri casi, non è affatto scontato. Tale circostanza basterebbe da sola a collocare il nostro artista in una dimensione inarrivabile ai più, dove non può esserci una facile comunicazione tra un ispirato agire poetico e un normale sentire popolare.
Nell’arte di Salvatore Rizzuti c’è un non so che di terribilmente portentoso, come una immane e arcana forza primigenia che incanta, immobilizza, rapisce e stordisce l’osservatore. E c’è qualcosa di ugualmente prodigioso e terribile in Caltabellotta, che da sempre ha facile gioco dei visitatori e dei suoi abitanti, allo stesso modo pietrificati dal suo magico fascino.
Inaspettatamente, allora, si potrebbe azzardare un’ipotesi che spiega l’affinità e l’amicizia che i caltabellottesi nutrono per l’inarrivabile artista e per la sua arte. Il maestro sente empaticamente, e molto chiaramente, l’arcano che abita il suo paese e lo costituisce a fondamento della sua opera, la quale si rivela tangibilmente come una possente e persuasiva figurazione scolpita.
In tal senso l’arte di Salvatore/Totò è il frutto più bello della nostra terra ed è fatta della stessa sostanza materiale e immateriale. Le terre, i legni, le pietre, i metalli. I suoni, i colori, gli odori, le sensazioni. Il mito, la storia, la fede, la tradizione. Natura e cultura di Caltabellotta, l’essenza stessa del Genius Loci, sono condensate mirabilmente nell’opera del maestro. Le tensioni e le forze in gioco sono enormi e la lotta per forgiare la materia è combattuta stoicamente. Lo dimostrano le oltre cinquecento sculture realizzate in cinquant’anni, quasi un’opera ogni mese. Una fiamma che arde e alimenta la creatività del nostro maestro da quando era un bambino e che oggi divampa con crescente intensità. Totò ha trovato in Caltabellotta la sua musa inquietante.
Caltabellotta ha trovato in Totò il suo ispirato cantore. È una unione che non si spiega ma che invece si sente. È un profondo legame tra la natura e l’uomo, tra la materia e lo spirito. L’esito è davanti a noi, evidente, emozionante, toccante, come solo l’arte più autentica può esserlo.
Tale sodalizio ha trovato una prima ufficializzazione nel 2011, quando il maestro ha sentito di donare al paese la sua opera Vespro siciliano, la quale, chiaramente, è profondamente legata alla Pace di Caltabellotta del 1302. In quella occasione, che tutti ricordiamo anche per una mostra retrospettiva dal successo eclatante, l’Amministrazione comunale e il Consiglio cittadino hanno preso un impegno solenne: custodire, valorizzare, tramandare il Vespro siciliano alle future generazioni, riconoscendo in esso, oltre il valore artistico, anche una parte importante dell’identità collettiva e della memoria storica. Nacque così un monumento. Non capita ogni giorno.
A partire da quell’esperienza, e considerata l’amorevole e ancestrale unione tra Salvatore Rizzuti e Caltabellotta, non si poteva più rimandare questo momento.
Eccoci qua, dunque!
Finalmente a Caltabellotta oggi, in un’epoca di vacche magre, s’inaugura il Museo Salvatore Rizzuti. Con tutti gli sforzi e la sensibilità di amministratori, consiglieri, e sostenitori, il museo non si sarebbe potuto concretizzare senza la generosità del maestro Rizzuti. Tutte le opere esposte sono infatti il frutto di una donazione. Viste le premesse, quelle della unione tra la terra e il poeta di cui abbiamo già detto, tale dono sembra quasi connotarsi di sacro.
L’ho detto, Amen!
La parola è grossa ma non è detta a caso. I frutti più belli di questo matrimonio sono finalmente a casa. Altri frutti verranno generati dai loro semi.
Concludendo, è inutile e superfluo affrontare qui un’analisi delle opere, essendo l’iconografia chiara, l’iconologia che raramente complessa, le tecniche artistiche ancor più chiaramente meritevoli di approfondimenti che non si possono affrontare in poche righe.
Una valutazione possibile, oltre che doverosa, riguarda però il museo che oggi s’inaugura.
Esso non è soltanto l’occasione con la quale l’Amministrazione e il Consiglio comunale, con grande impegno, va detto, celebrano il maestro Salvatore Rizzuti per essersi così ben distinto nelle arti e per avere portato ovunque in Italia e nel mondo, insieme al suo prestigio personale, anche il nome di Caltabellotta.
Questo museo è soprattutto una risorsa culturale di alto livello. È un investimento in opere d’arte di grande valore, è un tesoro per le prossime generazioni. È un dono alla collettività, sentito e autentico, per una speranza di futuro. Tale gesto ci giunge in un momento di grandi difficoltà economiche e d’impoverimento culturale e sociale, aggravato dal forte calo demografico. Oltre alla generosità, quindi, vanno debitamente considerate la sensibilità e l’opportunità.
Con questa donazione il nostro caro Totò ha realizzato l’opera d’arte più bella. Un’opera d’arte per Caltabellotta, che forse può essere letta in soccorso di Caltabellotta. In tale senso il valore di questo museo è molto di più della sommatoria delle opere che contiene. Credo che il suo messaggio arrivi forte e chiaro!
Teniamocelo caro, come caro ci è il nostro Totò.
Sarà di buon auspicio!

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Salvatore Rizzuti o, se preferite, Totò Rizzuti

Emozioni

Roberto D'Alberto

pubblicato su: Catalogo della mostra permanente delle trentatré opere donate al Museo Civico di Caltabellotta, autore: Roberto D'Alberto

Innanzi tutto l’emozione. Soltanto dopo la comprensione.

Un celebre filosofo greco sosteneva che artista è colui il quale svela “i disegni irrealizzati della natura”. In maniera più articolata si può anche affermare che artista è chi sa dare forma, espressione e sostanza, a un pezzo di legno, alla nuda pietra, a una manciata d’argilla, a un blocco di marmo, a una tela bianca, chi è capace di progettare una casa funzionale, chi riesce a scrivere un bel verso, chi compone buona musica, o se preferite, in maniera del tutto astratta, artista può essere addirittura chi riesce a dar corpo a una semplice idea.
Forti di questo concetto, allora, possiamo tranquillamente asserire che Totò Rizzuti, protagonista dell’attuale rassegna, è certo uomo d’arte “a tutto tondo”.
Là dove “a tutto tondo”, non è soltanto una tecnica scultoria in base alla quale una figura si modella da tutti i lati, così come insegnava addirittura Fidia, ma anche un modo conciso per dichiarare che Totò in tanti anni di attività ha dimostrato un talento artistico a trecentosessanta gradi, evidenziato dai quadri giovanili, dalle mostre, le commesse pubbliche, l’insegnamento,
le sculture in pietra, marmo, bronzo, legno, seminate un po’ ovunque.
Quando il nostro Artista, con la schiettezza che gli è propria, ha comunicato a un gruppo d’amici il proposito di regalare trentatré delle sue maggiori opere al museo locale, ha esposto anche i motivi che l’hanno spinto a intraprendere questa lodevole iniziativa.
Tra ragionamenti, deduzioni e argomenti vari, è sbucata persino una magica parola che da sola ha illustrato il senso della sua idea e della sua arte: emozione.
Con semplicità ha precisato che le sue opere sono nondimeno frutto di tecnica, studio, mestiere, sacrifici, ma soprattutto, ha tenuto a farci sapere che mai potrebbe creare qualcosa se alla radice dei suoi lavori non ci fosse appunto… emozione.
Ed è sempre l’emozione d’arricchire il “natio borgo selvaggio”, che gli ha suggerito di donare alla comunità caltabellottese parte delle creazioni artistiche elaborate negli anni.
Oltremodo emozionante, ancora, è la sua parabola umana, quella che magari avrebbe voluto relegarlo alla gestione dell’azienda familiare, e che invece la forza del suo talento ha proteso verso ben altri lidi.
Emoziona, come non bastasse, l’attenzione che concede a persone, luoghi e cose caltabellottesi.
Emoziona il suo limpido percorso artistico, costellato di rassegne, riconoscimenti, incarichi importanti, attività didattiche, opere d’arte.
Emoziona il tratto umano, genuino, austero, e pur profondamente intriso di buone maniere.
Emoziona la consapevolezza del proprio talento, mai ostentato, mai sopra le righe, garbato, ma straripante forza espressiva.
Emoziona quella sorta di legame mai interrotto con Caltabellotta, e rinvigorito nel tempo dal ripristino della casa paterna di via Colonnello Vita, dalle costanti brevi visite in paese, dalla elargizione dell’opera Vespro siciliano sempre in favore del museo, e adesso dall’offerta gratuita di trentatré dei suoi lavori.
Emoziona la cortesia con la quale spiega, illustra, chiarisce a coloro i quali lo chiedono le linee
essenziali delle sue sculture.
Emoziona la cura rigorosa con cui cesella ogni sua creazione, e che traspare dal primo colpo di scalpello fino alla messa in posa delle opere stesse.
Emoziona quel suo squisito sentire, che in tempi tanto miseri gli sussurra di concedere alla comunità le perle della sua fatica, del suo ingegno.
Il dono del Maestro Rizzuti, dunque, restituisce dignità al museo caltabellottese, che da oggi in poi avrà una ragione in più per riproporsi ai visitatori e splendere di una nuova fulgida luce.
Compito dei caltabellottesi più sensibili, però, non meno che delle autorità locali, deve anche essere, secondo il desiderio del nostro mecenate, di tutelare il patrimonio artistico ricevuto e aiutare a valorizzarlo nel miglior modo possibile.
Gestire un museo, preservare le opere dalle ingiurie del tempo non è facile per nessuno, si sa, ma una nuova attenzione, un maggiore impegno, una rinnovata responsabilità, diventano alla luce del generoso lascito un obbligo istituzionale e civile.
I poveri di spirito sostengono che la cultura non porta pane, ma è vero invece esattamente il contrario, perché è documentato che ogni euro speso per un museo genera due euro di profitto per le altre aziende della zona.
Un ulteriore e solido motivo, quindi, per abbracciare politiche di ampio respiro che sostengano attività adeguate a consolidare un impiego intelligente e produttivo della struttura museale.
Fare arte è senz’altro un modo d’essere, e aiuta a dare un senso alla vita; Totò, con la sua generosità, ci fa capire che divulgare opere, suscitare emozioni, è una delle più clamorose gratificazioni a cui un artista possa aspirare.
Personalmente, infine, sono fiducioso che i caltabellottesi comprendano appieno la valenza del messaggio trasmesso dal Maestro Rizzuti, e sappiano apprezzarlo per quel che è: un nobile gesto, di una grande persona.

Grazie di cuore.

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Emozioni

L’arte di Salvatore Rizzuti, occasione di rigenerazione culturale e di sviluppo

Maria Iacono

pubblicato su: Catalogo della mostra permanente delle trentatré opere donate al Museo Civico di Caltabellotta, autore: Maria Iacono

La donazione al Museo Civico di Caltabellotta di un fondo di ben trentatré opere scultoree e plastico-figurative (più Vespro siciliano, già donato nel dicembre 2010) dell’artista Salvatore Rizzuti, costituisce il fatto e la premessa di un lungo discorso che non potrà concentrarsi nella densità della cerimonia dell’ostensione espositiva né, a maggior ragione, potrà esaurirvisi, ma che dovrà svolgersi e svilupparsi nel tempo perpetuo dell’esposizione stessa.
La prima e più ovvia considerazione da fare per dare avvio a questo discorso è che il copioso e liberale donativo del Maestro Rizzuti rappresenterà per sempre il “tesoretto” e il cuore propulsivo del giovane Museo Civico. Lo connoterà nel tempo e di fatto lo designerà nell’intesa generale e nel linguaggio comune. Si voglia o no il nostro Museo, al di sopra delle proprie originali e moderne finalità documentarie ed illustrative, diventerà il luogo più eletto e antologicamente completo della raffinatissima arte scultorea del nostro grande Artista. Finirà dunque con l’essere indicato come il Museo di Rizzuti.
Accanto a questa preliminare considerazione, e come suo immediato corollario propositivo, ci sarà da assicurare un continuativo e permanente approfondimento storico-artistico dell’opera creativa dello scultore, delle sue radici, delle sue vibranti implicazioni culturali, del suo particolarissimo stile, dei suoi esiti eclettici ma interiormente coerenti, perché intuiti e distillati dalla tradizione storica ed artistica siciliana, ed in particolare da quella che si andò accumulando nel periodo del Rinascimento, quando l’arrivo ed il deposito dei più svariati influssi creò un linguaggio ricco di sfaccettature, polisemico e insuperabilmente suggestivo.
Il libro d’aria e di pietra da cui Salvatore Rizzuti ha inferito questa tradizione siciliana che in illo tempore ebbe fama ed ammirazione europea, e che ancora oggi, unitamente al periodo siceliota, riscuote sul piano culturale il rispetto e la stima di cui gode quella vera e paradigmatica Sicilia, è stato ed è Caltabellotta.
Ho sempre pensato che se Salvatore Rizzuti non fosse nato in questa città di storia, sarebbe dovuto nascervi, tant’è la necessità che io avverto ed apprendo dal rapporto tra lui e la terra natale. Sembra quasi che lo scultore abbia voluto, sempre, in mimesi e metafore, in parabole e storie, smascherare, dirozzare, disvelare dalla materia la sua Caltabellotta: il senso di Caltabellotta, la sua storia, il suo silenzio d’altura che narra le epoche, la sua catafratta mobilità.
E sembra che anche Caltabellotta abbia, di lui, fatto lo stesso, scolpendogli il genio sin dalla nascita.
Oggi si ristabilisce un sinallagma che vede da una parte la Terra Madre e dall’altra il Figlio che ritorna e dona ad essa un saggio di ciò che è stato in grado di fare. Caltabellotta come l’Itaca di questo nostro Odisseo dell’arte.
Il canto delle sireneLa Grande MadreSoffioAttesaParto alla greca, sono, tra i tanti, alcuni soggetti muliebri delle opere donate ed acquisite stabilmente dal Museo Civico: una sorta di caleidoscopica variazione sul tema della donna come Madre, come Terra, come Storia, come Sicilia. Rizzuti, primeggiante neogotico del postmoderno, e cioè di un oggi che mentre si ricerca già passa nel proprio ritorno di ricerca di valori, muovendo dall’idea primordiale e sacrale delle preistoriche Veneri sicane, trasfonde nel magistero della resa gli influssi d’arte e di storia che da millenni hanno inseminato la Sicilia: le maniere gotiche ispano-catalane, le arie francesi, le gentilezze occitaniche, i fugati corporei serpottiani, le plasticità materiche del Gagini. C’è atavicamente, ancestralmente, nell’arte del Rizzuti, il potente ricettore e filtro storico della sua Caltabellotta, di questa Erice d’entroterra, e che sempre più Città d’Arte e di storia deve divenire, in un progetto culturale non dissimile da un grande progetto politico, ed anzi non diversamente identitario: la cultura come oggetto e risorsa per la direzione della vita e della realtà. Di più, in un paese bloccato e apparentemente condannato al declino come l’Italia, ciò che a lungo è mancato è stata una strategia complessiva capace di creare un circolo virtuoso tra politica e cultura, e all’interno di questa, la capacità di individuare quegli ambiti da cui maggiormente poteva scaturire il senso di un’etica della conoscenza e della responsabilità necessarie per riportare la classe dirigente sul binario dei valori di una civiltà moderna e matura. Quella cultura che – sono parole di Giorgio Napolitano – è stata “una scelta di fondo troppo a lungo trascurata”.
In questi termini ho sempre cercato di declinare il mio impegno nella vita politica, nella determinazione delle sue scelte, nell’ambizione delle sue più intime prospettive.
Alla base di una cultura, in sostanza, c’è una società e la società trova la sua essenza nella cultura che si è data.
La politica si nutre, infatti, sempre di tradizioni, di storia, di elaborazione filosofica. Per cambiare la politica è necessaria una rivoluzione culturale che porti ad una nuova pratica politica.
La cultura, da privilegio di una classe deve trasformarsi per assumere il significato di un servizio sociale a favore di tutti.
Così l’opera di Salvatore Rizzuti ha un valore che non è meramente artistico ma può e deve porre le condizioni per ripensare un territorio e, con esso, il suo travaglio e la sua rigenerazione, sapendo offrire quella capacità di pensiero cui tutti possono attingere come un momento determinante del percorso umano e delle relazioni fra saperi individuali e contesti sociali.
Ciò è possibile. Caltabellotta è divenuta polo d’arte non meno di altri siti – il Cretto di Burri, per esempio, o la nuova Gibellina, o la messinese Fiumara d’Arte. Ora bisogna prenderne piena coscienza ed agire con determinazione ed idee incisive. In questa azione il Museo di Caltabellotta dovrà fungere da faro.

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L’arte di Salvatore Rizzuti, occasione di rigenerazione culturale e di sviluppo

Lucerna e specchio

Calogero Pumilia

pubblicato su: Catalogo della mostra permanente delle trentatré opere donate al Museo Civico di Caltabellotta, autore: Calogero Pumilia

Un gesto d’amore rifonda il Museo Civico di Caltabellotta. Uno straordinario atto di generosità ne modifica l’impianto, gli conferisce la cifra prevalente, ne fa, in modo più compiuto che negli anni passati, uno spazio d’arte, di cultura e di bellezza e ne facilita l’incontro spiazzante e catartico con il visitatore.
Il dono che Salvatore Rizzuti porta alla nostra comunità è di inestimabile valore.
Con le sue opere, che per sempre resteranno in mezzo a noi, custodite ed esposte nel Museo, Rizzuti si priva di alcune delle sue creature, ci affida il frutto del suo genio, della sua ricerca, della capacità di modellare il legno e la pietra in qualche modo già pronte, nei luoghi della sua infanzia, a recepire ciò che l’artista aveva dentro, il modello e l’idea di bellezza che ha coltivato in sé ed è stato, poi, capace di trasferire a quella inerte materia, senza sforzo né artificio, perché diventasse, come scriveva Michelangelo, “lucerna e specchio” della sua scultura.
Le superfici e i volumi, le linee aspre e talora apparentemente diseguali, nacquero e presero la forma dell’arte a partire dal nostro mondo, dal paesaggio aguzzo e duro che Totò percorse negli anni della sua infanzia quando, come egli stesso scrive, “all’età di nove anni interrompe la frequenza della quarta elementare per andare ad aiutare il padre e i due fratelli nella conduzione dell’azienda pastorizia. Vi rimane fino all’età di diciotto anni […]”.
La nostra è una terra aspra, impastata di sacrifici, di rinunce e di lotte. Il paesaggio di una bellezza struggente, arido e assolato o freddo e nebbioso, ha la forma delle sue pietre dure e aguzze.
Anche in essa, negli anni dell’immediato dopoguerra, una generazione coltivò la speranza di un futuro diverso, ebbe la forza di cambiare, di contribuire alla crescita della comunità e di affrancarsi da una lunga storia di stenti e di sconfitte.
Dopo il liceo artistico e l’Accademia con maestri, tra gli altri, come Carmelo Cappello e Ubaldo Mirabelli, l’ascesa di Totò Rizzuti nel mondo dell’arte è stata veloce e ricca di soddisfazioni, consentendogli grandi e importanti riconoscimenti.
“Il genio della scultura arride alle sue cose”, scrisse Leonardo Sciascia.
Il genio della scultura!
L’arte è cosa strana.
Tanto è impalpabile, inafferrabile, a volte apparentemente urticante e incomprensibile, quanto necessaria. Necessaria, anzi indispensabile all’anima e all’intelligenza dell’uomo che vuole cogliere il senso profondo e straniante della bellezza.
Quella bellezza che l’artista ha esplorato e visto nella natura, nei colori dei boschi, nei prati, nel mutare delle stagioni che in questa nostra terra di Caltabellotta si manifestano con violenza e passione.
Il contatto quotidiano nella sua infanzia e nella sua giovinezza con essa hanno segnato Salvatore Rizzuti, in qualche maniera ne hanno caratterizzato anche i tratti fisici, l’apparente scontrosità, il ritrarsi che nasconde una grande umanità e un’autentica cultura e lo hanno accompagnato nella sua, ormai, lunga attività di artista.
Il legno delle sculture, le venature, i nodi, le crepe dei sui lavori, con la trasfigurazione naturalmente del gesto artistico, sono diventate memoria di questi luoghi, di un trascorso personale e difficile, di una terra dove nulla è semplice e scontato.
Come tutti i grandi artisti egli trae linfa da questo, perché solo chi entra nelle pieghe della vita può spiegarne i misteri e rappresentarla con le forme dell’arte.
Quel mondo l’artista lo ha interiorizzato, non l’ha mai dimenticato neppure quando, probabilmente, ne avrebbe avuto la tentazione, quando il suo rapporto con esso sembrava fortemente incrinato.
Per lunghi anni Caltabellotta ha stentato a riconoscere uno dei suoi figli migliori, a sentire propria la produzione di un artista stimato ed affermato nel panorama nazionale.
Il rapporto cominciò a ricomposi con la straordinaria mostra “Sculture” del dicembre 2010.
Da allora prese via via forma l’idea di renderlo permanente, di legare per sempre Rizzuti e la sua arte alla sua terra, impedendogli, se posso dirlo, di continuare a ritenerla, in qualche modo, estranea ed ostile, di costringere i caltabellottesi ad essere orgogliosi di un grande artista di Caltabellotta, di far “tornare” in mezzo a noi, stabilmente, parte delle opere che, per scomodare Aristotele, in potenza da qui erano partite.
Quell’idea incontrò la disponibilità di Salvatore Rizzuti.
Era già anche sua e non ci volle nulla per convincerlo.
Egli era pronto ad un gesto che avrebbe detto dell’amore e del legame inestricabile con la sua terra e con la sua comunità. Ad essa l’artista affida ora le proprie creazioni e la fa responsabile della loro vita futura.
Esse devono essere custodite con il rispetto e l’attenzione che si devono alle cose preziose.
Il sindaco, la giunta, il consiglio comunale hanno accettato la donazione di Rizzuti in nome di tutti i caltabellottesi che la ricevono anche per conto di coloro che, nel tempo, verranno ad ammirarla. I procedimenti amministrativi che accompagnano questi passaggi sono stati compiuti con la consapevolezza di contribuire a realizzare un evento importante e non effimero o temporaneo come può essere una mostra.
Il lungo, affettuoso applauso dell’intero consiglio comunale nel momento nel quale ha concluso l’esame del nuovo regolamento del Museo, accogliendo, come era giusto, anche le prescrizioni volute dall’artista a garanzia delle sue creature, è stato, io credo, quello dell’intera comunità caltabellottese. Il Museo Civico, anche e principalmente con le opere di Rizzuti, diventa uno degli spazi d’arte, di cultura e di bellezza più importanti della Sicilia, non uno dei tanti luoghi spesso anonimi, ripetitivi e generalisti, ma un luogo caratterizzato da una forte impronta, dalla produzione di un artista “nostro”, dalla scultura che ha un impatto immediato, forte che costringe a misurarsi con forme plastiche, con volumi in qualche modo “ingombranti”, uno spazio legato al territorio, come lo rappresenta l’arte che è, insieme, espressione di una identità particolare e di valori e scelte estetici e di stili universali.
Occorrerà continuare ad arricchire ancora di più il Museo con opere e reperti riconducibili alla nostra lunga, ricca storia.
Abbiamo compiuto un passo fondamentale in questa direzione, abbiamo accolto oggetti che lo impreziosiscono e lo rendono unico.
Siamo consapevoli dell’importanza del dono che accettiamo, personalmente orgogliosi. Sapremo utilizzarlo anche come occasione di attrazione per la nostra terra.
Dal marzo del 2014 “il genio della scultura”, per citare ancora Sciascia, arride, oltre che alle opere di Rizzuti, anche al Museo Civico di Caltabellotta.

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Lucerna e specchio

Modellare il silenzio

Giovanni Bonanno

pubblicato su: Rivista "Euromediterraneo", maggio 2003 autore: Giovanni Bonanno

Il suo destino matura mentre pascola le pecore. Salvatore Rizzuti è tra i più rappresentativi scultori siciliani

Rizzuti nasce nel 1949 a Caltabellotta dove, sino a 18 anni, trascorre il tempo nella solitudine della campagna, accudendo alla fattoria del padre.
Ne soffre e si ribella. La sua fortuna è un viaggio a Palermo. 

… Anno cruciale è il 1980. Bruno Caruso e Leonardo Sciascia lo scoprono proponendolo al pubblico…

Conosce il silenzio, il sussurro del vento, l’eco dell’anima, da quando sui monti agrigentini pascolava il gregge e intagliava tronchi e pietre, riproducendo figure zoomorfe. Ancora oggi il silenzio lo avvolge, nascosto nell’atelier di Monreale con vista sui limoneti, lontano dai rimori.
Lo circondano le sue sculture di legno, bronzo e terracotta, come creature che abitano la casa dove vive con moglie e figli.
E’ un artista solitario Salvatore Rizzuti, rassegnato all’indifferenza dei più, preoccupato solo di ascoltare la voce della natura, del mito e della storia, che traduce con afflato in forme plastiche di lettura immediata, talvolta problematica. La sua matrice è realista, che si lascia plasmare dall’astrazione per dare corpo ad opere raffiguranti un universo poetico di sogni ed enigmi, oltr il limite della ragine.
Ordinario di scultura all’Accademia di Belle Arti di Palermo, Rizzuti si forma sotto la guida di Silvestre Cuffaro e Carmelo Cappello. Maestri, diversi nella concezione di linea e modellato, che riconoscono nell’allievo doti particolari, ben sapendo delle sue origini. Con loro il giovane diviene partecipe dell’idea dell’arte, quale espressione dell’uomo e della sua astrazione.
Rizzuti nasce nel 1949 a Caltabellotta dove, sino a 18 anni, trascorre il tempo nella solitudine della campagna, accudendo alla fattoria del padre, che non può consentirgli altri orizzonti che quelli della pastorizia e dell’agricoltura. Ne soffre e si ribella. La sua fortuna è un viaggio nel capoluogo dell’Isola.
Qui incontra un estimatore che lo assume come apprendista scultore nella ditta di marmi cimiteriali. Per il camposanto di Sant’Orsola il ragazzo realizza molti lavori, che gli consentono di acquisire padronanza di tecniche, dalla sbozzatura alla lucidatura di angeli piangenti.
E’ il 1967 quando si iscrive alla terza media. Quindi frequenta il liceo artistico; Tino Signorini è il suo docente di Figura; poi, nel ’72 viene invitato dal direttore Giuseppe De Caro ad entrare all’Accademia. Quattro anni di impegno tumultuoso con lo sguardo al titanismo michelangiolesco, al tormento della Sistina e al mistero della Pietà Rondanini. Appartiene a questa stagione il blocco marmoreo I dannati, fuoriuscenti dolorosamente dalla pietra. Michelangelo e Dante sono i referenti. Il primo per vocazione, l’altro per assimilazione. La Divina Commedia è il viatico di suo padre, contadino comunista che recita a memoria le tre cantiche, da cui trae saggezza per sé, la famiglia e gli amici. Da questa comunione quotidiana il ragazzo resta soggiogato ed ora, che è artista riconosciuto, torna con la mente alla giovinezza aspra e selvaggia che gli squaderna il senso dell’essere di là da contingenze.
In occasione della  Prima rassegna del sacro nell’arte contemporanea si imbatte nella scultura lignea Ritratto di un papa di Floriano Bodini. Il totem amletico, strutturato di centinaia di pezzi, lo scuote mostrandogli l’intelligenza di una tecnica che svela l’energia di una materia poco praticata.
D’un tratto si ricorda anche di Pericle Fazzini e riattivando l’interesse per il legno crea con una radice di ulivo Dafne. Volto elegiaco delle Metamorfosi, scavato nel tronco e nella corteccia, splendente di melanconia nella grazia del viso e nel vuoto degli occhi. Del ’77 è il Cristo maledicente della collezione La Duca. Un carrubo, articolato e nodoso, espressivo di ribellione contro l’intellettualità farisaica. Dello stesso anno è Donna gravida: cipresso compatto nella regolarità del cilindro, soffuso di dolcezza materna. Due sculture differenti e complementari. Indicano il realismo espressionista e la classicità astrattiva entro cui, dialetticamente, opera il giovane artista. il quale indaga i manufatti di Ugo Attardi, Agenore Fabbri e Giacomo Manzù, sentendo la pulsione della forma come verità plastica della storia. Di Manzù soprattutto contempla l’armonia drammatica donatelliana, della Porta di Rotterdam.
Anno cruciale è il 1980. Bruno Caruso e Leonardo Sciascia lo scoprono proponendolo al pubblico. Alla Tavolozza l’intellighenzia di Palermo si raduna per osservare la scultura di rizzuti che Sciascia presenta in un articolo sul Corriere della Sera: “C’è qualcosa di religioso, di votivo: come se le forme, condizionate dalla materia, dalle venature e dai nodi e dai colori del legno e della pietra, nascessero da una condizione di solitudine e comunione e si formassero con grandi domande senza risposte.” I critici italiani scrivono con interesse dell’artista che, mesi dopo, è chiamato ad occupare la cattedra di Scultura all’Accademia, dove riafferma l’urgenza di una manualità essenziale alla creazione. Nel contempo, a Roma e a Torino, le gallerie lo accolgono mettendo in luce un linguaggio evocativo della classicità conturbata.
Rizzuti struttura, nel 1981, in frassino, Achille, alto oltre due metri e trenta. Guerriero dalla movenza atletica, boccioniano nel ritmo e nello scatto, che coniuga arditamente figurazione e astrazione. Memoria greca e dinamismo futurista nella tensione di una icone che rimanda al David degli Uffizi. L’anno successivo è la volta di Vespro siciliano, provocatorio e teatrale.
Al centro di curiosità e di mercato Salvatore Rizzuti si crede prigioniero e rifiuta compromessi e consigli, questi ultimi volti a farne uno straordinario naif. Fugge ogni incontro e si nasconde sino all’isolamento e alla crisi. Ingenuità che lo relega, in breve tempo, nella solitudine urbana, ma gli permette, negli anni Ottanta, di realizzare opere di notevoli dimensioni: PrometeoGrande Madre, Lilith, Adamo ed Eva. Legno di tiglio assemblato è quest’ultima scultura, di 250 centimetri d’altezza, raffigurante distesi a terra, nel pieno dell’angoscia, i progenitori. Morbida è la materia come di carne nella sovrapposizione dei corpi dannati nell’inferno quotidiano.
Nel 1991 Rizzuti porta a termine Annunciazione. Ancora un tiglio assemblato, iconologicamente sacrale nella nudità virginia di ispirazione egizia. Forma rappresentativa della simbiosi concreto-astratto, densa di poesia intima, priva di edulcorazioni. E’ in terracotta la Salomé, di due anni dopo, che nella corporeità erotica del nudo svela l’inquietudine della concezione classica. Gli anni successivi sono contrassegnati da volontà di ricerca sino ai confini del mito e della surrealtà: Filemone e Bauci , Apologia del silenzioPrigione della memoria. E’ del ’98 l’Omaggio a Piero, composto di due busti in terracotta. Plasmata di segreto sorriso la figura femminile; di pensieri pietrosi quella maschile. L’una e l’altra posseduta da emozioni umanistiche proprie di Piero della Francesca, Verrocchio e Laurana, mentre Wildt appare con durezza nel volto del principe. Somma di valori ideali ed estetici che lo scultore agrigentino concretizza in opere come PersefoneOmaggio a Piero n. 2Minotauro e Burqa nel silenzio dello studio, dove quasi nessuno lo raggiunge.
Avrebbe voluto e vorrebbe ancora essere utile alla sua terra. “Ma la Sicilia è indifferente”, afferma Rizzuti. “I suoi amministratori sono lontani dalla cultura e quando si interessano dell’arte è per strumentalizzarla con risultato ignobili, come nel caso del carciofo di pietra piantato, a Palermo, nella grande piazza De Gasperi”.

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Salvatore Rizzuti

Daniela Thomas

pubblicato su: Catalogo su "La Theotokos", agosto - settembre, 1988 autore: Daniela Thomas

Nel mondo occidentale la ricerca del senso del proprio essere è forse affidata prevalentemente ad una tormentata ed affannosa corsa contro la morte, inesorabile e impietosa compagna di cui si sente continuamente la presenza, l’alito, a cui si sa di dover cedere il passo senza possibilità di salvezza. Ogni uomo porta dentro di sé, più o meno nascosta, la profonda e sconfinata angoscia dell’esistenza, una muta domanda a cui nessuno potrà rispondere sul verso senso del proprio essere, a cui si è disperatamente aggrappati, da cui si è inesorabilmente trascinati sempre più lontano da ogni luce.
Pochi sono però quegli uomini che riescono ad affrontare coraggiosamente, cercando di tirar fuori qualcosa che possa essere utile non solo a loro stessi ma a chiunque lo voglia, e fra questi riteniamo che – nel nostro mondo – gli artisti occupino uno dei primi post, per l’evidenza assoluta che, attraverso le loro opere, appare ai nostri occhi e, scavalcando le nostre menti spesso contorte e/o distorte, ai nostri cuori. Per questo parleremo qui di uno scultore Salvatore Rizzuti, un uomo in cui la tensione interiore raggiunge punte elevatissime, liberandosi fluida, senza interruzioni, attraverso le grandi, poderose mani, in opere vive e vibranti, ognuna delle quali pare avergli risucchiato l’anima e parlarci direttamente dalla sua immobilità straziante. E’ un uomo che, quando lavora, “sente la materia non solo con le mani, ma con tutto il corpo, ne è ammaliato, vi immerge, vi penetra come in un rapporto d’amore, dimentico di ogni cosa, e ne esce vivificato, stravolto, stupito e quasi scontento, come dopo l’immensa beatitudine di un amplesso che svanisce in un istante”. Rimane tuttavia un’opera, densa, concreta: quasi sempre una figura femminile, quasi sempre una madre, come la Grande Madre (gesso, 1986).
Sono madri fatte di terra, dal corpo grande e forte, possente, il ventre gravido talmente ardente di aprirsi da spaccarsi talvolta, per gridare dalle fenditure la propria voglia sconfinata di dar vita, senza tregua, dissolvendosi anche, inebriandosi di sé, dell’umore vitale che sembra stia per sprizzare dai seni maestosamente turgidi. Si sente veramente la sacralità e il mistero di una nascita, non più individuale, non più da donna, il cui volto infatti è nascosto da un velo, ma dal cuore stesso dell’universo, come un’esplosione vitale. Ed è naturale, per un uomo che aspiri al completamento di sé, la rappresentazione di ogni aspetto complementare attraverso il femminile, quanto vi è cioè di più ricettivo, materno, accogliente, caldo, rassicurante, ricco di fermenti, pieno di vita ma anche di morte, proprio come la terra, da cui si nasce, in cui si torna. Il femminile, dunque, che attrae infinitamente così come infinitamente spaventa, per il suo accattivante e terrifico mistero che avvolge e avviluppa.
Incontrando lo sguardo della Grande Madre che Rizzuti ha realizzato in terracotta (1986), si ha l’impressione di sentire sulla pelle il soffio fresco e umido, di terra e muffa, delle tombe etrusche, è un invito esplicito a “scendere” nei recessi inesplorati che ciascuno di noi sente dentro, ad un viaggio catartico all’interno della terra per rinascere, per ridare un senso alla parola “uomo” così intimamente connessa con “humus”. E il dolce sorriso appena accennato sulle belle labbra della Madonna (legno 1988) che Rizzuti espone a Tindari, ci incoraggia ad affrontarlo, si sente la presenza anche carnale, di una madre pronta ad abbracciare il figlio, a trasfondergli la propria anima insieme al calore del proprio corpo pur di dare energia, di dare vita, di rinnovare. Un’ansia di rinnovamento e di purificazione che si legge nelle sculture, nella vita, negli occhi puliti di quest’uomo che lavora sentendosi un mezzo d’espressione dell’energia vitale che tutto pervade.

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L’archetipo della donna nelle sculture

Franco La Rosa

pubblicato su: Supplemento al n. 12 della rivista "Palermo", novembre 1986 autore: Franco La Rosa

Analizzare l’opera di Rizzuti sotto l’aspetto della psicologia del profondo implica far emergere le componenti essenziali dell’arte come momento di unione della individualità dell’artista e la sua creatività, quale incarnazione di miti e sogni che rivestono di tensione le forme scultoree.
Il contrasto tra l’esterno e l’interno nell’uomo si riflette nella ricerca di un rapporto tra la creazione artistica e la realtà archetipica.
Le masse corporee delle figure femminili terrene rinviano continuamente a misteriose evocazioni o all’infinito silenzio.
Le trasformazioni delle masse che si librano nel vuoto come a creare lo spazio, delineate dall’autore con ritmi precisi e incalzanti non sono mai formali, ma svelano la ignota e imperscrutabile interiorità e i contrasti profondi che, come fantasmi, emergono nelle apparenze.
E’ come se nello sviluppo individuale della ricerca del sé, gli archetipi si imponessero quali forme sempre nuove: il grande archetipo femminile con le sue multiformi realizzazioni corrisponde ai diversi momenti della lotta combattuta dall’artista-creatore, per il raggiungimento delle sue aspirazioni.
Nell’autentica ricerca dello stato primordiale dell'”essere” le figure assumono, quasi d’incanto, delle trasformazioni non casuali, ma come sorgenti dall’inconscio, liberando situazioni dinamiche interne.
La forma nuova supera il contenuto nelle continue metamorfosi dell’uomo-animale; ma quale radice onirica e inconscia correla l’intuizione artistica della scultura stessa?
La via della liberazione dal sostrato terreno, attraverso la frequente figura femminile, simbolo ctonio, viene delineata dalla modificazione che essa subisce nel volto e negli arti.
Attraverso una lettura iconologica, l’essenza delle sculture ci rivela connessioni con antiche rappresentazioni mitiche, evidenziando aspetti archetipici connaturati all’Homo Faber che nel rapporto con la materia delle sue opere, il legno, stabilisce un contatto ancestrale con gli elementi della natura e ne svela le opposizioni.
L’archetipo del Femminile rappresenta il simbolo della totalità che regge il mondo in tutti i suoi aspetti contrastanti. Il femminile, a livello mitico, è il primo passaggio verso la trasformazione; è il momento iniziale di contatto con i simboli più arcaici; è conoscenza delle parti più profonde del mistero della creazione, momento di passaggio dall’inconscio al conscio, al palese, al manifesto. Ed è proprio questo archetipo ad emergere dall’opera di Rizzuti nelle realizzazioni di donne con teste di serpente, gatto, aquila; attraverso riferimenti mitici e iconografici le sue opere svelano come il momento creativo si associ parallelamente al suo problematico porsi nei confronti dell’Essere e del proprio processo di individuazione.
La rappresentazione mitica del serpente, ad esempio, ci riporta al simbolo di Gea che feconda e avvinghia tutti gli elementi naturali della superficie terrestre. L’archetipo del femminile, in questo caso, appare come la potenza e il fascino del numinoso che agiscono dissolvendo la coscienza dell’Io.
Le figure femminili dalla testa di serpente denunciano l’impossibilità a liberarsi dagli istinti primordiali che sono comunque insiti nella morfologia corporea della donna scolpita; sembra infatti che il braccio, nell’estremo tentativo di divincolarsi, non riesca a sottrarsi a questa forza primordiale.
(…) La fantasia artistica dell’autore è da intendersi tanto in senso causale, come sintomi di uno stato fisiologico o personale, risultato dei suoi vissuti precedenti, che come momento finalistico simbolico che tenta attraverso il materiale usato di caratterizzare o individuare un determinato obiettivo ben lontano da ogni compiacimento narcisistico.
La sua fantasia attiva è il principale contrassegno dell’esperienza spirituale; non è a questo proposito difficile cogliere la simbologia dell’ultima Croce dell’artista, in quanto non esprime il superamento degli istinti animaleschi dell’uomo, rivelati in altre opere. Questa Croce non è raffigurata in senso tradizionale, ma piuttosto simbolizzata nella “croce-albero”, come immagine della Madre, che con i suoi rami tenta l’unione con l’Eroe. Quest’immagine perfetta armonia di volumi prorompenti, è un atto di supremo coraggio e nello stesso tempo di suprema rinuncia; attraverso la quale l’umanità può ancora sperare la suprema salvezza, giacché solo un’azione come questa, evidenziata dal trionfo della “morte-resurrezione”, mirabilmente espressa nella scultura lignea, sembra adeguata ad espiare la colpa di Adamo, la sua sfrenata istintualità.

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Catalogo della personale alla Galleria “Viotti” di Torino

Franco Grasso

pubblicato su: Catalogo della personale alla Galleria "Viotti" di Torino, marzo 1983 autore: Franco Grasso

Un positivo apporto alle sorti della scultura italiana contemporanea, anche nei momenti gravati da pessimistiche previsioni, non è mai mancato da parte degli artisti siciliani: dalla generazione di Franchina e di Cappello, di Mazzullo e di Greco, a quella di Consagra e di Attardi, sino a quella maturatasi negli anni ’50 e ’60. la certezza che tale continuità non sia interrotta ci viene adesso dalla presenza di Salvatore Rizzuti, attivo a Palermo e già affermatosi su piano nazionale con una personale alla “Ca’ d’Oro” di Roma.
La sua opera odierna non discende dalle facili sperimentazioni, dalle avventure neo-avanguardistiche di rapida usura, ma da un forte istinto plastico che non rifiuta i valori della figurazione in quanto espressivi di contenuti universali, di passioni e tensione umane. E intanto prevale in lui, insofferente per ogni atteggiamento di posa o stasi, la smaniosa necessità di accentuare la dinamica dei corpi per renderli significanti di un doloroso interno.
Egli procede nella sua creazione da un travagliato stadio conflittuale in cui entrano in gioco visioni affiorate dai recessi della memoria, risentimenti di ferite antiche e recenti, individuali e sociali, indistinti aneliti di ribellione, e ad un tempo lo sforzo di includere questa materia in fermento entro rigorosi equilibri formali rispondenti in definitiva alle leggi organiche della natura. Sinché non perviene alla chiarezza ideale della forma e quindi alla realizzazione di getto, senza l’ausilio di schizzi e disegni, nello scavo sicuro del legno della pietra del marmo, nella modellazione rapida della creta.
In un primo tempo Rizzuti sembrava incline a cogliere dalla stessa materia, da una frastagliata radice, da un tronco contorto, dagli aspetti di un masso, dalle venature di un marmo, i suggerimenti e gli spunti per le sue immagini: nasceva così dalle sinuosità di una radica d’ulivo il prezioso intrico arboreo di una Dafne dischiuso su un dolce volto di fanciulla; o una maschera urlante o la grinta mostruosa di una bestia agonizzante; o da un fusto di cipresso usciva la severa figura di “Donna gravida” compresa della pulsione di vita fremente nel suo grembo, o da un tronco di noce emergeva un volto d’uomo incupito incombente su una testa femminile scarmigliata, in crudele atto di prevaricazione.
Possono riscontrarsi in tali opere i caratteri volumetrici tipici degli xoana arcaici intagliati nei tronchi cilindrici; ma i limiti del primitivo schematismo vengono superati dalla profondità e libertà dello scavo, dai contrasti accattivanti tra l’ombrosa ruvidezza del legno grezzo e la luminosità delle parti levigate con sensibili modulazioni. Permangono talora questi caratteri strutturali in certe figure in alabastro o in marmo di Carrara, come nell’armonioso verticalismo di “Dopo la doccia” dove il nervoso rilievo del torso scende a piombo sulla pura linea dei fianchi e delle gambe per sciogliersi in basso tra le avvolgenti pieghe del panneggio.
Ma l’ansioso travaglio dell’artista non poteva rimanere frenato in tali schemi, né sempre il torcersi di un tronco poteva esprimere il violento erompere di moti interni. Ricorre allora all’impiego della terracotta e del bronzo liberando le forme in più complesse strutture, in una più violenta dinamica, mentre intervengono motivi emblematici allusivi a situazioni di estrema tensione e si moltiplicano i personaggi significativi del concitato dramma che investe l’umanità e la sua storia: un indomito Ulisse, simbolo della sete inestinguibile di scoperta, sfida la tempesta erto sul relitto di una prua; si dibatte nella lotta contro l’aquila celeste un terrestre Prometeo ribelle ad ogni tirannide; Baccanti invasate in conturbanti deliri torcono a terra le membra in convulsi sussulti.
Sperimentate così le proprietà plastiche della creta e del metallo, ma fedele al primo amore per il materiale ligneo, vivo come la pianta che esce dalla terra, Rizzuti comincia a utilizzarlo col metodo della sovrapposizione di strati compatti, di inserti a tassello, che gli offrono la possibilità, anziché del togliere, dell’aggiungere al nucleo di base, in una continua dilatazione dei volumi che segue la crescita dell’idea dominante. Con questa tecnica, magistralmente padroneggiata, egli può meglio realizzare adesso la sua aspirazione al far grande, alla monumentalità della composizione.
Sorgono in tal modo imponenti figure di eroi e di guerrieri senza spada né scudo, senza volto né nome, ma animati da una forza interna che dopo la lunga compressione si espande per virtù dell’artista che li chiama a combattere le sue battaglie ideali. E’ un mondo che ci ricorda stranamente quello di Ivan Mestrovich, lo scultore jugoslavo che Rizzuti certamente ignora per il silenzio in cui la critica contemporanea lo ha lasciato da mezzo secolo, ma che ha in comune con lui la sincerità e la forza dell’origine contadina.
O forse è un ritorno a una sorta di romanticismo dell’età eroica, nel quale però s’innestano, superati residui veristici o naturalistici, inesistenti suggestioni della rivolta espressionista e della liberazione surrealista nella dimensione del fantastico. In tale dimensione si muovono soprattutto le figure femminili frementi nell’attesa o coinvolte, come in un sogno angoscioso, nel conflitto dell’eros tra piacere  e dolore.
L’ultima composizione è un coraggioso tentativo di evocazione delle vicende del Vespro, in occasione del settimo centenario. Resiste invano alla violenza il giovane corpo di una donna stretto nella presa di due possenti padroni: è la Sicilia oppressa tra Chiesa e Conquistatori nel suo disperato sforzo di riscatto. Una visione che si attualizza nella meditazione sul corso di antichi e di recenti eventi di usurpazione e violenza.

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Rizzuti: forme sensitive

Eduardo Rebulla

pubblicato su: Giornale "L'Ora", 26 febbraio 1983 autore: Eduardo Rebulla

La Tavolozza, via Libertà 39, fino al 12 marzo

Molte persone sono cieche alla forma, lo sapeva Henry Monroe quando raccomandava di “imparare a sentire la forma semplicemente come forma”. E forse la stessa cosa intendeva Arturo martini affermando che “La scultura non è metafora, è una piccola esaltazione”. Far correre il pensiero, giocare coi traslati e con le associazioni è, quindi, secondario di fronte a una scultura. Perentorio è, invece, l’invito a servirsi delle mani per comprendere la materia e il segno dell’artista (“un bronzo bisogna saperlo accarezzare come una bambola”, ha scritto Marino Marini).
Da questa posizione, eminentemente sensitiva, riuscirà semplice concepire le sculture di Salvatore Rizzuti come forme sottoposte a improvvise e dolorose espansioni. Vi è, in questa mostra alla Tavolozza, un bronzetto che presuppone tutti gli altri. Il suo titolo è “Raccoglimento” e rappresenta una figura femminile piegata su se stessa: la sua struttura è come un nucleo compatto, carico di energie compresse, di forse “implosive”. Dalla sua brusca apertura nasceranno le altre figure, che porteranno evidenti i segni di questo spasimo nella schiena inarcata nelle mutilazioni, nelle torsioni.
La stessa tensione, attenuata dal diverso materiale e dalle grandi dimensioni, presiede alle sculture di legno e trova persino risonanze drammatiche nella figura femminile del “Vespro siciliano“, simbolo dell’Isola assoggettata allo straniero con la complicità della Chiesa. in questo gruppo, statuario e potente, Rizzuti sfiora la semplificazione descrittiva e rischia il contrasto tra la forma immobile del vescovo e le altre due sculture, vibranti e contratte.
Solo in un bronzetto, infine, la materia appare distesa, pacificata: la “Donna obesa“, figura complice e materna che si denuda con un gesto misurato e familiare. Questa serenità non trova altri riscontri in Rizzuti, artista introverso e sotterraneo, che guarda Attardi e Bodini e ha già in mente di rendere più essenziale il suo discorso, di suggerire più che di rappresentare.

Quotazioni in galleria: Bronzetti da L. 1.700.000 a L. 2.500.000; Sculture di legno da L. 14.000.000 a L. 45.000.000

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Modellare il legno con amore viscerale

Giuseppe Frazzetto

pubblicato su: Giornale "Espresso Sera" di Catania, 3 dicembre 1982 autore: Giuseppe Frazzetto

Salvatore Rizzuti all'”Arte Club”

S’è inaugurata presso la galleria “Arte Club” di piazza Grenoble una personale dello scultore palermitano Salvatore Rizzuti, docente presso la cattedra di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. Rizzuti, ancora molto giovane, si presenta con un folto gruppo di opere di vario formato e di varia ispirazione, unite dal comune denominatore d’un amore viscerale per una materia (il legno) che raramente è entrata a far parte delle predilezioni novecentesche. C’è in realtà, un altro palese comune denominatore fra le opere presentate in mostra: una valentia tecnica che, pure se visibilmente non accademica e “non regolare”, s’impone don la nativa forza dei talenti spontanei.
Rizzuti, infatti, è un esempio di scultura istintuale e “selvaggia”, poco incline alla inflessione corrosiva dell’avanguardia, e teso piuttosto alla resa tumultuosa d’un plasticismo commosso ed agitato. Con ciò non si vuole certo dire che la scultura di Rizzuti sia ingenua: e basterebbe a dimostrarlo la visione del gruppo “Vespro siciliano” (che s’impone con la sua massiccia presenza a chi entri in galleria, e che suscita la curiosità dei passanti anche non appassionati d’arte), così profondamente intrisa di sollecitazioni culturali, fra cui particolarmente palesi quelle di Manzù e, soprattutto, di Tadini. O basterebbe analizzare le contorsioni spaziali del “Guerriero” (altra massiccia presenza), sorta di sincretica unione della mobilità boccioniana con l’ironica e tagliente vena di un Ceroli.
La personalità di Rizzuti, febbrilmente orientata verso la ricerca, si rivela comunque più compiutamente nei lavori di piccolo formato, di più spontanea e delicata fattura. In questi piccoli lavori (in legno, bronzo o terracotta) si può cogliere un intento fra il Simbolismo e la Secessione, reso manifesto dall’attenzione allo sviluppo curvilineo delle linee e dalla pacata, ma spesso tragica, deformazione dei volti e delle figure.

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Un gregge di forme

Costanzo Costantini

pubblicato su: Giornale "Il Messaggero", 10 maggio 1981 autore: Costanzo Costantini

Personaggi
Salvatore Rizzuti
Secondo Leonardo Sciascia sulle sue opere spira il genio della scultura.
Bruno Caruso gli attribuisce un raffinato gusto romantico.
Eppure fino a pochi anni fa quest’uomo faceva il pastore. Chiediamogli come scoprì di essere un artista vivendo nelle grotte e nei pagliai.

Non sapremmo dire se sia come nella leggenda di Giotto, ma di certo è come nella storia di “Padre padrone”.
“Pastore sono io e pastore devi essere anche tu”, diceva il “padre padrone” siciliano al figlio Salvatore, così come il “padre padrone” sardo aveva detto al figlio Gavino; senonché se Gavino si era laureato in glottologia ed era diventato scrittore, Salvatore è diventato, sempre che questo verbo sia adatto nel suo caso, scultore.
Nato a Caltabellotta, in provincia di Agrigento, il 4 luglio 1949, Salvatore Rizzuti aveva incominciato a frequentare le elementari, ma a nove anni era stato costretto ad abbandonare la scuola, i compagni di giuoco, la casa e il paese in cui era cresciuto sino allora. Il padre possedeva una piccola azienda pastorale, che era tutta la sua ragione di vita. Era una azienda piuttosto arcaica, a conduzione familiare, nella quale dovevano lavorare tutti i membri del clan, cioè lui e i tre figli maschi, mentre la moglie attendeva alle faccende di casa e alla preparazione del cibo. Anche Salvatore dovette partire per la montagna.
Racconta Gavino Ledda in Padre padrone: “La mia esperienza scolastica, contrariamente alla volontà mia e della maestra, durò poco più di un mese o cessò molto prima che io divenissi propriamente un alunno. Una mattina di febbraio, mentre la maestra si sforzava di farmi scrivere alla lavagna, mio padre con lo sguardo terrificante di un falco affamato, dalla strada fulminò la scuola… I suoi occhi lampeggiarono. “Sono venuto – disse – a riprendermi il ragazzo. Mi serve a governare le pecore e a custodirle. E’ mio. Saprò fare di lii un ottimo pastore capace di produrre latte, formaggio e carne. Lui non deve studiare. Ora deve pensare a crescere. Quando sarà grande la quinta elementare la farà come fanno molti prima di arruolarsi”.”
Ci racconta Salvatore Rizzuti: “Quando lessi Padre padrone, rivissi in pieno la mia esperienza. Nessuno più di me poteva capire quel che era accaduto a Gavino Ledda. Mio padre non piombò nella scuola come fece il padre di Gavino, ma non fu meno irremovibile. Dovetti lasciare tutto e partire con i miei fratelli. Dormivamo nelle grotte e nei pagliai, a seconda delle stagioni Tornavamo in paese una volta al mese, i una volta ogni mese e mezzo, per andare a prendere le provviste, o in occasione di qualche grande festa religiosa. Restai sulla montagna fino ai diciotto anni, per circa dieci anni”.
Sono stati Bruno Caruso e Leonardo Sciascia a scoprire e a segnalare il talento artistico di Salvatore Rizzuti, incoraggiandolo a mostrare ciò che aveva scolpito dapprima a Palermo nella galleria “La Tavolozza”, e poi a Roma, nella galleria “Ca’ d’oro”.
In un articolo inviato al Corriere della Sera in occasione della mostra palermitana, Leonardo Sciascia scriveva che “i miti ancora si inverano”, tanto è vero che, mentre pascolava le pecore sulla montagna che sovrasta Caltabellotta, Salvatore Rizzuti scolpiva pietre e radiche di olivi, scavandole a raffigurare volti umani e figure, come guidato dalla materia più che dalla memoria, o se mai da una memoria ancestrale e remota; in quelle sculture c’è qualcosa di religioso, di votivo, come se le forme, condizionate dalla materia, dalle venature, dai nodi e dai colori del legno e della pietra, nascessero da una condizione di religiosa solitudine e comunione e si formulassero come grandi domande senza risposte, nello spirito del leopardiano canto del pastore.
Nella presentazione scritta per il catalogo in occasione  della mostra romana, Bruno Caruso dice che, forse tenendo nella mano il sasso da scagliare, come Davide, Salvatore Rizzuti ne tastava inconsapevolmente la forma e ne individuava le forse spontanee, in quanto nella sua natura c’era quell’istinto innato, quella spinta irresistibile, quella febbre che gli imponeva, sin da ragazzo, di scolpire, di sbozzare, di incidere ogni sasso che trovava lungo la strada, ogni legno, perfino le ossa delle bestie che biancheggiavano sulla montagna, Aggiunge il pittore: “Da bambino si costruì una spada triangolare e istoriata, di foggia greca. Certamente, più che la fantasia o la cultura, fu un istinto atavico a fargli ideare una spada come quella del Pelide Achille. Per una parentela, per un atto di cittadinanza, per una naturale appartenenza alla patria della scultura? Di certo era una spada diversa da quella che si sarebbe costruita un bambino di città. Nell’infanzia scolpì anche un trionfo: un piccolo trionfo arcaico e ingenuo nel quale un idolo o un condottiero o comunque un eroe sovrastava un’ara sorretta da quattro colonnine con tanto di capitelli corinzi”.
Ci dice Salvatore Rizzuti:
“Senza che me ne rendessi chiaramente conto, andava nascendo in me la passione per l’arte. Modellavo i pezzi di creta che trovavo lungo le mulattiere, o scolpivo i sassi e i pezzi di legno che mi capitavano fra le mani mentre pascolavo o tenevo a bada il gregge.
Ne facevo dei giocattoli, delle spade, dei pugnali intarsiati o degli idoli allegorici. Incidevo sul legno o sulla pietra le immagini che mi restavano in testa da qualche film che vedevo quando andavo in paese per le provviste. Il cinema era l’unico contatto che io avevo con la realtà, e in quegli anni andavano di moda i fil colossali sull’antica Roma. Ricordo che scolpii, in pietra, un piccolo Cesare che dietro aveva due colonnine e davanti una specie di gladiatore che lo sosteneva con le spalle”.

Ma come fu che abbandonò la pastorizia e riprese a studiare? 

“Vedendo le cose che facevo, più di qualcuno spronava mio padre perché mi facesse studiare, ma mio padre non voleva saperne. Così un giorno presi la decisione e me ne andai a Palermo, dove trovai un lavoro presso una ditta di marmo che faceva statue e decorazioni per i cimiteri. Nello stesso tempo ripresi a studiare. feci prima le medie e poi il liceo artistico  l’Accademia di belle arti. Finii l’Accademia nel ’76 ma già nel ’75 avevo lasciato il lavoro presso la ditta di marmo per fare qualcosa di più personale. Prima della mostra alla ‘Tavolozza’ che mi fu allestita  nell’aprile dell’anno scorso, avevo esposto delle cose a Caltabellotta e nei paesi vicini, ma nessuno si era accorto di me. Il mio nome venne fuori dopo la mostra palermitana, e fui poi chiamato a tenere un corso speciale di scultura all’Accademia.

Ma fu l’Accademia a darle una preparazione tecnica?

“Per due anni ebbi come professore Silvestre Cuffaro e per gli altri due Carmelo Cappello, ma ciò che loro facevano o mi insegnavano non aveva niente a che fare con quello che continuavo a fare io, per mio conto. Non voglio dire che l’Accademia non mi sia stata utile, mi sia servita a qualcosa, ma in realtà non mi sono mai ispirato a nessuno, a nessun modello, anche perché i maestri sono piuttosto freddi  nel dare agli altri ciò che è loro proprio. Scolpire era per me una cosa naturale. pur se dietro le mie opere c’è una cultura anatomica, io ho sempre fatto tutto secondo la mia fantasia. Ma non posso prescindere dalla figura umana.

In seguito suo padre cambiò atteggiamento nei suoi confronti?

Mio padre è morto tre anni fa, e non ha potuto vedere le mie mostre. Ma fino all’ultimo non voleva che io studiassi, era rimasto col pensiero fisso che io gli avevo scombinato l’azienda. Negli ultimi tempi si era un po’ addolcito, ma soltanto perché influenzato da tutti coloro che lodavano le mie sculture. Mia madre invece è felicissima di quello che ho fatto.

Lei ha detto che non si era accorto chiaramente che gli andava nascendo dentro la passione per l’arte. Ci può dire ora come è avvenuto questo processo?

“L’azienda di mio padre era di tipo tradizionale, primitivo. La vita che vi facevamo era estremamente solitaria. Almeno fino a dieci anni fa, era una vita al livello dell’uomo delle caverne, al di fuori di ogni rapporto sociale, di ogni rapporto umano. Uno dei miei due fratelli, che ora ha trentacinque anni, ha pascolato per tutta la vita, è vissuto sempre in montagna. Per noi andare in paese significava semplicemente andare a vedere nostra madre per farci dare le provviste. C’è stato un periodo, dai nove ai tredici anni, in cui io avevo paura della gente, avevo paura di incontrare la gente e di parlare con loro. Non potevamo fare altro che pensare, riflettere. Io ho rivissuto la storia dell’uomo nelle sue varie ere arcaiche. ora per me è difficile, difficilissimo abbandonare questo modo di pensare, questo modo di vivere. Tutto ciò che sta avvenendo attorno a me – le mostre, gli elogi dei critici e degli amici, il successo diciamo – mi sembra artificiale, estraneo. Domani, ade esempio, io debbo prendere l’aereo per tornare a Palermo: ebbene, sono terrorizzato. Come carattere, come uomo, come essere umano, il periodo passato in montagna mi ha segnato per sempre. Quello che io sono, si vede subito: non riesco ad apparire diverso, non posso fare nulla per essere diverso”.

Ma il successo la stimola in qualche modo? 

“Mi sembra che il bello delle cose stia nell’attesa; il resto non conta”
Quello di Salvatore Rizzuti è un caso che potrebbe indurci a rivedere le vecchie teorie sul processo della creatività, ed in particolare le teorie sul rapporto fra arte e psicoanalisi, o tra arte e follia: con ogni probabilità, il pastore di Caltabellotta si è dato alla scultura, più che per “liberare” le forze oscure che erano in lui e per esorcizzare la follia, per non  precipitare nella paranoia e nella follia. Sembrerebbe la stessa cosa, ma c’è una sottile differenza fra i due fenomeni.
A proposito di Gavino Ledda, qualcuno ha detto paradossalmente, con sinistra ironia, che aveva ragione il “padre padrone”:se il figlio gli avesse dato retta sino in fondo, oggi avremmo un buon pastore in più e un cattivo scrittore in meno. Ma si tratta di unaboutade, e comunque non è questo il caso di Salvatore Rizzuti, il cui talento è indiscutibile. Nell’articolo succitato, Leonardo Sciascia dice fra l’altro: “E viene da pensare a quel che Cecchi diceva di fronte alla Vittoria di Samotracia: un genio slaccia una fibbia, e il mondo appare diverso; e i cretini, invece… E non si vuole dire che il giovane Rizzuti si possa già dare per genio, ma è certo che il genio della scultura arride alle sue cose”. Dal canto suo Bruno Caruso non esita ad evocare il mondo universale di Michelangelo, mediato attraverso un gusto romantico colto, sofisticato, fra Boecklin e Von Stuck, le cui origini culturali restano inspiegabili: e annota che lo scultore siciliano conserverà sempre nel volto aggrottato e nello sguardo velato di tristezza la mestizia che lo assediava nel periodo in cui, in quella specie d’Arcadia che sono le montagne dell’Agrigentino, stava dietro al suo gregge.
Ma nel volto e nello sguardo di Salvatore Rizzuti si legge qualcosa di più amaro, di più profondo e di più tragico, come nel volto e nel corpo del Cristo che ha tratto dal vivo di un tronco, tutto intero, percorso da una vena dalla quale si sprigiona un liquido rosso e nero che fa pensare al sangue rappreso.
Si legge qualcosa di più della mestizia e del velo di tristezza: quell’angoscia di specie animale che assale l’uomo costretto all’isolamento totale, la “paralisi del contatto”, il blocco della comunicazione, lo smarrimento, la vertigine o il panico che incalzano coloro che sono indotti a inabissarsi in se stessi, in rapporto diretto con l’Essere.

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Facce di un pastore errante in Sicilia

Leonardo Sciascia

pubblicato su: Corriere della Sera Illustrato, 9 agosto 1980 autore: Leonardo Sciascia

Pascolava il gregge nella campagna vicino a Sciacca. Per ammazzare il tempo scavava figure e volti umani nella radica d’olivo. Un talento naturale. Dalle opere dello scultore siciliano traspare tutto il candore di un artista cresciuto in solitudine, lontano da mode e sperimentalismi.

I miti ancora si inverano: Salvatore Rizzuti pascolava le pecore nella campagna di Caltabellotta (aereo paese in provincia di Agrigento, con una campagna verde-argento di olivi che digrada verso Sciacca), aveva nove anni, aveva lasciato le scuole elementari dopo la terza e scolpiva pietre e radiche di olivi, le scavava a raffigurare volti umani, figure.
Durò per nove anni quella sua vita di pastore; poi, non sappiamo come incoraggiato e da chi, studiando nelle poche ore libere, prese la licenza elementare. Aveva diciotto anni. Continuò a studiare e, da esterno, fece la prima e la seconda media. Per favorevoli circostanze, poté frequentare la terza, a Palermo: dove fece poi il liceo artistico e l’accademia. Studente all’accademia, Bruno Caruso ne scoprì il talento, lo consigliò, ne parlò agli amici, fece sì che la più grande galleria palermitana gli organizzasse una mostra. E così abbiamo visto le sculture di Rizzuti.
Il primo elogio che gli si può fare, è di essere passato indenne attraverso il liceo e l’accademia. Il suo rivivere la storia della scultura è nativo, immediato, senza filtri o schemi; si direbbe guidato dalla materia, più che dalla memoria o se mai da una memoria ancestrale, remota. C’è qualcosa di religioso, di votivo: come se le forme, condizionate dalla materia, dalle venature e dai nodi e dai colori del legno e della pietra, nascessero da una condizione di religiosa solitudine e comunione e si formulassero come grandi domande senza risposte.
Inutile dire che stiamo pensando al leopardiano canto del pastore.
E insomma: mentre la scultura arranca tra mode e sperimentalismi e in mode e sperimentalismi si nega e dissolve, ecco uno che in solitudine, nella remota campagna siciliana, religiosamente – come propriamente si addice alla scultura – la riscopre. E viene da pensare a quel che Cecchi diceva di fronte alla Vittoria di Samotracia: un genio slaccia una fibbia, e il mondo appare diverso; e i cretini, invece… E non si vuole dire che il giovane Rizzuti si possa già dare per genio, ma è certo che il genio della scultura arride alle sue cose.

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Catalogo della personale alla Galleria “La Tavolozza” di Palermo

Bruno Caruso

pubblicato su: Catalogo della personale alla Galleria "La Tavolozza" di Palermo, aprile 1980 autore: Bruno Caruso

Una presentazione: per quel che vale! O per quel che ha perso di valore nell’uso corrente delle artistiche attività, e che riguarda ormai soltanto la routine delle mostre, delle gallerie, dei critici, degli artisti e del pubblico (perché no!), che, oggigiorno, per l’uso indiscriminato e per l’abuso che se n’è fatto, è diventata poca e povera cosa, come moneta inflazionata che va perdendo valore. La presentazione, quelle abituali due cartelle dattiloscritte a forma di saggio o nei casi più ipocriti sotto forma di lettera (che vilmente attribuisce all’artista la responsabilità o la mancanza i discrezione d’aver divulgato un giudizio privato, un segreto epistolare) viene richiesta dagli artisti ad un critico più o meno illustre, ad uno scrittore, ad un poeta o ad altro artista affinché questi, con le sue parole ed i suoi argomenti ne avalli le opere. E perché le spieghi al pubblico (quando le opere sono per l’appunto, come spesso accade, incomprensibili lo sono proprio per le presentazioni). E viene compilata, tutto sommato, per esaltare, interpretare, divulgare l’opera di un artista.
Nulla di tutto questo stavolta è avvenuto. Manca del tutto la figura del critico: l’artista non ha chiesto niente a nessuno. Né forse, alla fine, ci sarebbe alcun bisogno di esaltare, interpretare, spiegare le opere di Salvatore Rizzuti: perché ognuno, se lo vuole, può facilmente capirle e giudicarle da sé; sono infatti opere chiare e possenti ed il loro linguaggio è di per sé  inequivocabile e perentorio.
Ma su di esse tuttavia e sul loro autore forse giova fare un discorso, un discorso preliminare, scrivere questa “presentazione” se non altro per presentarlo.
Sono stato d’altronde io stesso, ed ho constatato, giunto ormai alla maturità, che questa è la prima volta che mi capita – un fatto abbastanza raro, cioè – sono stato dunque io stesso a chiedere ad un giovane artista di presentarlo. L’onore di presentarlo, come si suol dire. Ed è oggi appunto con emozione e con fierezza che voglio presentare Salvatore Rizzuti al pubblico, ai siciliani, in occasione di questa sua prima mostra personale: perché so di presentare un giovane scultore di grande talento di cui il suo paese, questa città, quest’isola presto saranno fieri ed orgogliosi.
La sua è una storia esemplare: come nella leggenda di Giotto, Salvatore Rizzuti è anche lui un pastore. Fin dall’età di nove anni, in quella specie d’Arcadia che sono le montagne dell’agrigentino, sta dietro al suo gregge con mestizia, una mestizia che conserva e che conserverà sempre sul suo volto aggrottato e nello sguardo velato di tristezza. ma stando dietro al gregge insegue anche un sogno, indistinto, impalpabile, imperscrutabile. E’ un sogno o forse già un’idea che non si concretizza facilmente, che non riesce neppure a prendere forma, ed è il caso di dirlo per un futuro scultore. E neppure ad intravedere l’imbocco di una strada o a concepirne l’essenza, le modalità d’una possibile realizzazione. Forse tenendo nella mano il sasso da scagliare (come Davide?) ne tastava inconsapevolmente la forma, ne andava individuando le forze spontanee che sprigionava “in nuce“. Perché nella sua natura c’era quell’istinto innato, quella spinta irresistibile, quella febbre che gli imponeva, fin da ragazzo, di scolpire, di sbozzare, di incidere ogni sasso che andava trovando per strada, ogni legno, perfino le ossa delle bestie che biancheggiavano sulla montagna. “Et in Arcadia ego“.
Da bambino si costruì una spada, triangolare ed istoriata, una spada di foggia greca. Certamente più che la fantasia o la cultura, un istinto atavico gli fece ideare una spada greca, greca come quella del Pelide Achille. Per una parentela, per una atto di cittadinanza, per una naturale appartenenza alla patria della scultura? Ma certo fu una spada diversa da quella che si sarebbe costruita un bambino di città, di forma se non proprio barocca certamente risorgimentale, garibaldina o sabauda che sia.
Nell’infanzia scolpì anche un trionfo; un piccolo trionfo arcaico ed ingenuo nel quale un idolo o un condottiero o comunque un eroe sovrastava un’ara sorretta da quattro colonnine con tanto di capitelli corinzi. Il tutto cavato da un sasso, da una sola pietra, senza aggiunte, senza appiccicature, senza trucchi: dal punto di vista tecnico un prodigio. Pochi altri oggetti sopravvivono di quell’epoca. E si può quindi presumere che altri lavori dell’età giovanile certamente arcaici, necessariamente arcaici, perché scaturiti da una condizione di vita e quindi da una cultura arcaica, siano andati distrutti o dispersi. Pietre destinate all’erosione dei venti o legni votati a marcire sotto la pioggia. Un velo si stende su quegli anni oscuri, come se fossero rimasti avvolti dalle nebbie che avviluppavano la montagna o da un mistero ancora più fitto coperto dal suo malinconico e severo riserbo. Dal riserbo che non era soltanto quello del bambino, dell’adolescente, del ragazzo che per anni ed anni ha conosciuto il sacrificio, la solitudine, il freddo, forse anche la fame; ma che contemporaneamente covava un’idea prepotente ed insieme straordinaria e che per anni ed anni se l’è tenuta gelosamente in pectore, nel cuore, fino allo scoccare della maggiore età. Con quali pene, con quali apprensioni, con quali dubbi, non lo sapremo mai. Fino a quando cioè si poté permettere il lusso della libera scelta di farla scoccare quell’idea, come una freccia, dopo tutta la tensione dell’arco corto della sua vita. E la freccia vibrò nel tronco sul quale si confisse, infondendogli vita anziché morte, una vita sua propria, la vita misteriosissima che l’arte infonde alle cose.
Salvatore decise così di divenire scultore, come se si fosse finalmente compiuto  un incantesimo o avverata una profezia. Ineluttabilmente. E come per un incantesimo quel magma che uscì dall’esplosione della sua vita prese la forma umana, tremendamente umana. Fu l’esplosione d’un talento. Un teschio scolpito in pietra lavica, terribilmente nero, terribilmente violaceo segnò, come un tremendo paradosso, questo atto di nascita: il magma che si solidificò sulla morte diede impulso alla sua vita di artista, paradossalmente gli fece da ossatura.
Sono trascorsi altri anni di oscuro lavoro nella periferia della città in una stanzetta angusta nella quale su andavano accumulando le opere che produceva. Quasi che i suoi stessi incubi, gli incubi del passato, le storie di violenza, la sua stessa storia si materializzasse e prendesse forma nella pietra.
Salvatore scolpisce – e la si può proprio dire questa parola, perché lui non modella ma scolpisce la materia -, cava dal marmo le figure tormentose di violenza, i volti digrignati dall’orrore, dallo spavento, bocche urlanti, mani rattrappite, artigliate, rapaci. Cominciò a cavare dalla materia con una straordinaria perizia che non poté  venirgli che dall’istinto, poiché non vi fu scuola che lo istruì, le tragedie umane, dando vigore all’espressione travagliata dell’uomo, ai tratti duri dei volti, ai muscoli scattanti del corpo, alle braccia dai nervi tesi e dalle vene scoppianti di pulsioni segrete. Dal marmo freddo cominciarono a vibrare le passioni cocenti degli infiniti drammi dell’uomo.
Inizia a scolpire i tronchi degli alberi stagionati, le radici contorte, ogni legno le cui forme suggeriscano una movenza e ne individua di volta in volta l’iconografia del suo soggetto dalle forme che la natura ha generato per caso sull’albero piegato dal vento o dai suoi umori sotterranei; ne sbozza le forme intuendone le fattezze, individuandone l’anatomia, accettando il suggerimento segreto della vita della pietra, che è vita tuttavia, come la vita umana. Ed alla fine, scolpita l’opera, ne leviga i muscoli con la perizia del massaggiatore d’un atleta di Maratona.
Spesso le ossa dello scheletro ideale dell’opera scolpita, quello scheletro che nell’opera manca, le costole, le anche, lo sterno, i gomiti e i ginocchi sporgono, “escono” in corrispondenza dei nodi del legno come se una regola misteriosa della coincidenza in natura ne facesse corrispondere i nodi con gli snodi. Altre volte le venature del legno si attorcigliano in spirali voluttuose come per accentuarne il disegno attorno ai seni sensuali, al ventre gravido o al pube, quasi fossero le curve di livello d’un’altra misteriosa topografia dei corpi. In certe opere la base è costituita dalla circonferenza naturale del tronco per significarne l’origine e per dimostrare come una creazione, quella artistica, appartenga ad un’altra creazione, a quella della natura.
Esili figure che forse sono anche più esili come sculture, e si snodano nella perfezione anatomica in posizioni forse troppo eleganti, troppo slanciate, troppo leziose dopo tanto vigore. Dopo l’adesione spontanea, istintiva e incondizionata di questo scultore al mondo universale di Michelangelo, mediato attraverso un gusto romantico colto, sofisticato, fra Boecklin e Von Stuck, le cui origini culturali restano quindi davvero inspiegabili.
Sono però i pezzi a grandezza naturale, quelli a misura d’uomo, i più straordinari. Scolpiti nel cipresso, nel noce o nell’ulivo. Ma da un tronco di carrubo Rizzuti ha cavato il suo capolavoro: uno stupendo Cristo, maledicente, finalmente irato, urlante. Un Cristo che sotto i colpi della sgorbia, quasi sotto i colpi di un’altra flagellazione, ma in effige stavolta, ha ripreso come in uno di quei veri o falsi miracoli di cui parlano le cronache popolari, a sanguinare. Chiunque lo vedrà!
In realtà, saltata la scorza dell’albero, nel vivo del tronco messo a nudo è apparsa una vena del legno ampiamente macchiata dal rosso nerastro del frutto del carrubo, dal succo delle bacche stritolate e spremute dalla crescita della pianta. E nel color rosso di questo sangue rappreso si è potuto intravedere, più che un autentico miracolo, un segno, il segno della predestinazione toccata all’artista, la magica verifica del suo destino a cantare le tragedie dell’uomo, un altro miracolo profano.

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Introduzione al catalogo della prima personale al Circolo “Omnia” di Marineo

Accursio Di Leo

pubblicato su: Catalogo della prima personale al Circolo "Omnia" di Marineo, agosto 1975 autore: Accursio Di Leo

Nascere a Caltabellotta nel 1949, e forse ancora oggi, può significare nascere fuori dal mondo in una dimensione arcaica e remota come le antiche querce che diedero il nome al paese che prima si chiamava Triocala.
Fino all’età di diciotto anni Totò è vissuto tra le cose di paese e quelle in campagna nella gran montagna lavorando con i fratelli e col padre ed a custodire il gregge.
Chi sa cosa passa per la mente di un giovane pastore durante le lunghe ore di guardia al gregge e conducendo al pascolo o all’abbeverata, solo, taciturno, scavando nel profondo del suo cuore.
La magia del male sacro che è il pensiero come una voce misteriosa e che non si sa dove viene né da chi, gli tiene compagnia di giorno e di notte. Poi una mattina la creta, il legno, la pietra cominciano a diventare materia da plasmare. Tu sei pietra, legno, creta ma io con le mie mani ti faccio diventare un’altra cosa, quello che pensi, quello che ho sognato ad occhi aperti, ti darò un’altra forma ed anche qualcosa di mio, che è dentro di me.
Forse allo stesso modo Dio rivolgendosi al nulla disse: tu sarai tutto, e creò il mondo e l’uomo che gli somiglia.
Salvatore già nei primi anni dell’infanzia trae dalla creta, dal legno, dalle pietre oggetti, spade, sciabole, figure umane, teste di personaggi impressi nella memoria, con il coltello e poi con uno spillone per definire i particolari del viso, delle mani, degli attributi.
Lo scultore spontaneo, primitivo è già nato.
Ora dopo avere superato la licenza media e dopo essersi diplomato al liceo artistico di Palermo, frequenta il corso di scultura all’Accademia di Belle Arti. Dopo una prima mostra di scultura e grafica al centro di Cultura di Sciacca e un’affermazione di indiscutibile prestigio nell’Estemporanea di Caltabellotta dello scorso anno, questo è il terzo incontro di Salvatore Rizzuti, questa volta con il pubblico di Marineo sensibile ed intelligente. Giudizi critici, accostamenti se ne possono fare diversi per l’arte di Salvatore rizzuti ed è chiaro che il genio di Michelangelo lo cerca come un vento profondo con tutte le inquietudini  dell’Homo Faber.
Comunque Salvatore somiglia soltanto a se stesso per quello che è e per quello che sarà: l’espressione vivente della gente del suo paese aspra, forte e testarda ma anche capace di sottili sfumature e di voli liberi e senza fine.

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